Il più bel secolo della mia vita Recensione



Tratto dall’ominima pièce teatrale da lu stesso diretta, Alessandro Bardani realizza un film la cui apparente semplicità di esecuzione è frutto di una sensibilità artistica che trova una magica sintonia con gli attori.

Onestà intellettuale, sensibilità umana, generosità artistica.
È una rarità che un film possieda questa terzina di valori. Raccontare una storia con sincerità narrativa, a prescindere dal contenuto, significa conoscerne i limiti, individuarne la forza e darle risalto. Nello sviluppo (equilibrio sui tre atti) e nei dettagli (scene e dialoghi).
Il regista Alessandro Bardani ha lavorato a lungo sull’omonima pièce teatrale, da lui scritta e diretta insieme a Luigi Di Capua, che dal 2015 in poi ha entusiasmato il pubblico da ogni palcoscenico. La transizione della storia verso lo schermo ha dunque ereditato un solido copione, adattato dagli stessi Bardani e Di Capua con Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli. Con le potenzialità del cinema, erano molteplici le strade che si aprivano di fronte ai due autori, ma nessuna di quelle imboccate si è rivelata un vicolo cieco.

Il più bel secolo della mia vita racconta l’incontro tra un centenario e un 25enne. Il conflitto tra di loro non è soltanto generazionale. Il vecchio, pur contando i giorni che che gli rimangono, è proiettato verso il futuro come sempre ha fatto nella sua vita, in fuga da un passato che non ha mai voluto guardare in faccia. Il giovane, che davanti a sé ha un’eternità, si tiene ancorato alle sue radici con la frustrazione di non sapere a quale albero appartengano.
Il tema toccato dal film punta il dito contro una legge tuttora in vigore in Italia che impedisce a un figlio non riconosciuto alla nascita, di conoscere l’identità dei suoi genitori biologici, almeno non prima del compimento del centesimo anno di età. È questo l’elemento che accomuna i due protagonisti, interpretati dal perfettamente in parte Valerio Lundini e dal sempre impeccabile Sergio Castellitto (la cui performance è arricchitta dall’impressionante trucco prostetico di Andrea Leanza).

La collaborazione tra Bardani e i due attori porta rigogliosi frutti.
Di generosità artistica, si diceva, ce n’è in abbondanza e lo si comprende da come le interpretazioni si nutrano del testo e viceversa. L’irriverenza di alcuni passaggi è gestita con una sensibilità tale da mettere in risalto i sentimenti dei personaggi, senza mai dimenticare le motivazioni che li fanno andare avanti, a volte sulla stessa linea direttrice, altre volte in sensi opposti. Il titoli di coda arrivano dopo un bellissimo finale, quando ci si rende conto che sono trascorsi in totale 83 minuti. Ma il tempo cinematografico è relativo, se è usato con intelligenza. Ed è in questo momento che noi spettatori scopriamo cosa ci abbia lasciato Il più bel secolo della mia vita: un velo di compiutezza e soddisfazione. Uno stato d’animo gradito che vogliamo si protragga il più possibile.





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