I temi sono nolaniani, quelli di sempre, quelli che parlano del reale e delle sue manipolazioni, di ordine e di caos, di intelletto e di sentimento. Film di dialoghi, Oppenheimer, e di non detti, dove la grandiosità e l’inventiva visiva stanno tutte nel volto e dagli occhi inquieti di Cillian Murphy. La recensione di Oppenheimer di Federico Gironi.
Il 70mm. L’IMAX. Le esplosioni riprese dal vero, mica fatte con la CGI. Eppure.
Eppure Oppenheimer non è il film di Christopher Nolan alla Christopher Nolan che i più si potrebbero aspettare, anche se – non ci sono dubbi – è un film nolaniano fino al midollo. Intimamente nolaniano. Sfacciatamente nolaniano.
Da sempre l’inglese si è interessato alla cosiddetta realtà. Alla sua composizione e alla sua scomposizione. Alla sua struttura e alla sua destrutturazione. A come la realtà viene vista, compresa, manipolata, ricostruita, reinventata.
A un certo punto, in Oppenheimer, il personaggio di Robert Downey Jr., Lewis Strauss, un politicante dentro e a capo della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America, dice al padre della bomba atomica che nessuno è in grado di vedere e comprendere la realtà nei termini in cui la vede lui. Nei termini di un genio della fisica, e di uno dei più importanti studiosi della meccanica quantistica.
Ecco: Oppenheimer è un film che ci racconta, o che prova a raccontare, quello straordinario mistero – in parte irrisolto perfino in questo film, perfino per il suo regista – che è stato lo sguardo di Robert Oppenheimer sul mondo, sulla fisica, sulla costruzione di un’arma definitiva che ha causato morte e distruzione su una scala precedentemente inaudita, una volta sganciata su Hiroshima e Nagasaki, e che ha cambiato la storia del mondo.
Attenzione però: se alla fisica o al genio scientifico Nolan ha sempre guardato (basti pensare al Nikola Tesla di The Prestige, o alle trame di Interstellar, Inception e Tenet), lo ha anche sempre fatto cercando di portarne sullo schermo le implicazioni in termini visuali e spettacolari, cercando di dare un forma – per l’appunto visibile – alle complesse geometrie e alle architetture caotiche e impossibili che le idee e le azioni richiedevano.
Quello che invece Nolan mette sullo schermo in Oppenheimer, invece, è una visione implosa, tutta racchiusa nell’intensità dei primi piani di Cillian Murphy, nella fascinazione quasi lovecraftiana e nel disagio esistenziale che si agitano all’interno di due occhi azzurri e inquieti che Nolan fa dardeggiare sullo schermo interrogando di continuo lo spettatore su quanto gli viene raccontato.
70mm, IMAX e tutto il resto per un film che è in tutto e per tutto un film di attori (grandi, almeno in questo caso) e di dialoghi, dove è la sceneggiatura a farla da padrona, dove i volti e le smorfie e i movimenti impercettibili dei muscoli facciali dei protagonisti sono tutto quello che conta a livello spettacolare.
Dove siamo costantemente portati a immaginare – a vedere con gli occhi della mente, e dell’intelletto – l’agitarsi inquieto del pensiero di Robert Oppenheimer dietro al volto e agli occhi dell’attore che lo interpreta. Un agitarsi che fa sembrare piatte, e canoniche, le scene più ardite di Inception o Tenet.
In Oppenheimer, a più riprese, viene detto che nessuno sa davvero cosa passi per la testa del fisico. Quali siano i suoi pensieri, le sue teorie, le sue strategie. Le sue posizioni morali, i suoi obiettivi scientifici e filosofici.
Nessuno, nemmeno forse Nolan, sa decifrare del tutto il mistero di un uomo che ha flirtato in maniera sconsiderata e ossessiva con l’apocalisse, inseguendo un risultato con determinazione senza pari, e al tempo stesso venendo piegato e ferito in maniera così profonda e sconvolgente da quello stesso risultato.
Personaggio prometeico fin dalla didascalia che apre il film, e fin dal titolo del libro biografico di Kai Bird e Martin J. Sherwin su cui Nolan si è basato, Robert Oppenheimer diventa chiaramente simbolo quintessenziale dell’ambizione umana, delle sue spinte distruttive e creatrici insieme, delle contraddizioni, dei rischi e delle ambiguità del progresso (che però è ineludibile, e necessario). Al tempo stesso, è anche semplicemente (si fa per dire) un uomo, un soggetto, un singolo, la cui eccezionalità è vissuta e declinata attraverso traiettorie complesse e non necessariamente convergenti verso una soluzione identitaria unitaria.
Da un lato, nelle parti del film a colori, la storia di Oppenheimer, del progetto Manhattan e della bomba, della commissione d’inchiesta cui fu sottoposto negli anni del maccartismo. Dall’altro, sequenze in bianco e nero che raccontano del ruolo di Lewis Strauss (e quindi della politica, e del Potere in senso ampio) nella vita e nel lavoro di Oppenheimer (degli interessi, delle ingerenze, delle manipolazioni del Potere nei confronti della Scienza).
Il film di Nolan procede su questo doppio binario, ma chi si aspetti gli arditi puzzle temporali dei film precedenti dell’inglese rimarrà almeno in parte deluso. Anche in questo caso, è con altro che Nolan vuole stupire.
Per esempio, con il senso e la verità su un dialogo inudibile, quello che avviene tra Oppenheimer e Einstein sulla riva di un laghetto dove sparute gocce di pioggia creano cerchi concentrici che si allargano e si intersecano. Un dialogo che sarà l’ossessione, e la dannazione, del personaggio di Downey, ma anche dello stesso Oppenheimer, in qualche modo.
Per esempio nel modo in cui struttura un parallelo implicito ma evidente tra il disastro della bomba, e quello del maccartismo.
Nolan fa recitare il suo cast in maniera spettacolare (non solo un Murphy francamente enorme, e un Downey a lui molto vicino, ma tutti gli attori, che sono tantissimi e spesso anche noti) a livelli stellari, costruisce con Hoyte van Hoytema immagini cinematograficamente fortissime e di impatto emotivo esplosivo, ma tutta la galassia tematica e visiva di Oppenheimer ruota attorno al suo protagonista, ai suoi tormenti, alle sue pulsioni e alle sue reazioni che si trovano a un instabile crocevia tra l’istinto puro, il genio razionale, la rapacità megalomane. Attorno ai primi piani e agli occhi di Oppenheimer, che brillano di esaltazione e tormento, che si tratti delle fasi conclusive e definitive del Manhattan Project, o delle visioni che lo tormentano, mentre arringa la folla con stolida retorica patriottica, quando il senso di colpa per quanto avvenuto in Giappone lo investono con violenza sottile ma inaudita.
E l’impressione, in un film dalle proporzioni enormi, pari alle sue ambizioni, in un film che viene da un autore sempre così freddo e controllato, eppure così incline a raccontare con grande potenza delle implicazioni instabili del caos (pensiamo al suo Joker, in Il cavaliere oscuro), della guerra (Dunkirk) o perfino del sentimento, sia che l’immagine sullo schermo, intensa e fisicamente percepibile nella sua dimensione analogica, nella grana di una pellicola che in fondo sta lì quasi a simboleggiare i suoi atomi, l’impressione è che questa immagine vibri, pulsi, sia pronta a esplodere, a implodere, a investire con una potenza che Nolan risparmia, ma solo in parte, a noi che guardiamo. E che sempre, costantemente, lascia percepire, immaginare, temere.
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