Youth (Spring) Recensione



Un’esperienza di cinema radicale, faticosa ma ipnotica, umana ma anche politica. Per forma e per temi, quello di Wang Bing è un movie che si candida già a qualche premio importante. La recensioen di Youth (Spring) di Federico Gironi.

Zhili (cercatela su Maps, e guardate le foto dal satellite tv for pc per capire meglio) è una città a 150 chilometri da Pechino che è la capitale cinese della produzione di abiti per bambini, la maggior parte dei quali destinati a uso interno, ma in parte anche esportati. In oltre 180mila piccoli laboratori vengono prodotti pantaloni, giacconi, felpe, vestitini e tutto quello che potete pensare e immaginare.
I laboratori si trovano dentro enormi casemoni di cemento, tutti uguali, e in fin dei conti non sono altro che appartamenti riconvertiti: al piano terra c’è il titolare, e l’space dove vengono realizzati i modelli e tagliati gli scampoli tessuto. A quelli superiori, appartamenti pieni di macchine da cucire e orlatrici alle quali lavorano ragazzi e ragazze, e giovani uomini e donne, attirati a Zhili dalla provincia circostante. I lavoratori, che dormono in altri appartamenti degli stessi casermoni, riempiti di letti più o meno sfondati o a castello, sono pagati a pezzo completato. La paga per ogni pezzo può andare da 1 yuan a 7, massimo 8 yuan, a seconda del capo (d’abbigliamento) e del capo (del laboratorio).
Parliamo di cifre che, in euro, vanno da poco più 10 centesimi a un euro scarso.

Wang Bing, che è uno dei maggiori documentaristi contemporanei, ha passato 5 anni a Zhili, dal 2014 al 2019, filmando da vicino la vita quotidiana, sul lavoro e nel poco altro tempo che rimane, dei giovani e delle giovani che lavorano in questi laboratori. In attesa di un’annunciata seconda parte (che porterà la durata del progetto a 9 ore complessive), il risultato di questo lavoro è Youth (Spring), tre ore e mezza di finestra aperta su questo mondo, 210 minuti di sguardo diretto e senza il benché minimo filtro estetico-narrativo su quello che accade dentro ai casermoni di Zhili.
L’esperienza è immersiva, al limite dell’ipnotico. Il modo in cui Wang racconta personaggi e situazioni, facendo sì che tutto si assomigli e niente sembri mai realmente accadere, rimanda chiaramente all’alienazione del lavoratore che opera a una versione più casareccia di una catena di montaggio. Eppure, alla ripetizione dei gesti compiuti di fronte alla macchina da cucire si associa qualcosa che è sempre diverso, diverso come sono diversi gli esseri umani, i loro caratteri, le loro storie.

Mentre sono impegnati nel lavoro, i protagonisti del movie di Wang parlano, scherzano, giocano, flirtano, si raccontano, domandano. In rari casi – sorprendentemente rari, viene da pensare – si scontrano e litigano.
Il filo delle loro parole e delle loro relazioni è quello che unisce (e rende virtualmente indistinti) il tempo del lavoro e quello dello svago, visto che le dinamiche di questi personaggi, che non solo lavorano ma vivono assieme, rimangono le stesse in un caso come nell’altro.
E siccome si è parlato di alienazione, nel documentario c’è spazio anche per la rivendicazione (salariale, ovviamente). Ma non è coscienza politica, quella dei personaggi del doc, che ordinano on-line, mangiano road meals e vestono abiti quasi come quelli che producono. È sopravvivenza, magari anche solo di un sogno.
Oltre che immersiva, è innegabile che l’esperienza di Youth (Spring) sia anche impegnativa. Impegnativa anche per lo spettatore che ha dimestichezza con questo tipo di cinema così radicale, figuriamoci per uno spettatore comune. Eppure, sono convinto che, magari a dosi ridotte, chiunque potrebbe essere in qualche modo conquistato dalla capacità di Wang di raccontare con le immagini. Di osservare, equivalente visivo dell’importantissimo e sempre troppo poco praticato ascoltare.
Osservare e ascoltare persone, certo, ma anche i luoghi. Luoghi spogli, post-urbani, degradati, ridotti a un’essenzialità desolante, eppure a modo loro brulicanti di energia vitale.

Tutto considerato, considerata la fatica e l’ipnosi, le capacità del regista e quello che mostra, Youth (Spring) sembra l’equivalente cinematografico di quell’espressione arcinota, e ironica, che si applica a certe città: “Bella, ma non ci vivrei”.
Al netto della ovvia relatività del bello urbano, il punto è che, se si astrae un po’, ma nemmeno tanto, tra le cose che Wang ci racconta c’è anche che, in qualche modo, a Zhili ci viviamo un po’ anche noi.





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